Perchè proprio a me

Ci sono cose che segnano una cesura nella nostra vita. Regalano un ‘prima’ e un ‘dopo’. Questo racconto putroppo è autobiografico. Uno dei pochi.


DÂ?un tratto sono sveglia. Ho dormito. Vuoto da primo risveglio, da risveglio improvviso. Sono in macchina. Non capisco cosa ci faccio in macchina, da sola, al posto di guida. Non importa. Non ho voglia di pensarci ora. Qualcosa non va. Questo silenzio, un totale silenzio. Non sento i pensieri, non sento le voci. E niente rumori. La bocca. Devo guardarmi la bocca. E’ chiusa. E’ piena, la sento piena di qualcosa. Non posso toccarla, però. Cerco uno specchio. Vedo lo specchietto retrovisore, a poca distanza dal mio braccio destro. Lo devo girare verso di me. Allungo il braccio. Mi accosto il più possibile con il viso. Non c’è bisogno: lo specchietto è nella mia mano, venuto via come fosse male incollato. Guardarsi ora è più facile. La bocca nera, di grumi rossi appiccicati, si apre lenta. Tutto si muove lentamente. Io, sola, mi muovo lentamente. Ma non è importante. La mia bocca sì, è diversa dal solito, è storta, storta dentro, divisa in due, una parte sopra lÂ?altra. E lo specchietto in mano, venuto via dal suo posto. Ecco, ora riesco a vedere intorno: pezzi di vetro sulle gambe, le mie gambe. Dovrebbero stare sul finestrino davanti a me, i vetri, come lo specchietto. Comincio a capire, e il silenzio è finito. Devo uscire di qui.

Non si apriva. Per quanto si sforzasse, aggrappato con tutte le sue forze a una maniglia troppo piccola per le sue mani, Antonio non riusciva ad aprire quello sportello. Aveva addosso quell’ansia di fare presto, sapeva che per la ragazza dentro la macchina anche un secondo in più poteva essere importante. Si girò: un uomo gli stava facendo cenno di scansarsi, avrebbe provato lui. Era sui cinquant’anni, grossa stazza, occhi fermi, di chi si sente ancora invincibile. Antonio gli cedette il posto e si mise a riflettere, in questi casi bisogna riflettere: era sicuro che lo sportello non si sarebbe aperto, la maniglia prima o poi avrebbe ceduto e non sarebbe stato possibile forzarlo con le mani. A quel punto sarebbe stato ancora più difficile, arrivare alla ragazza. Erano almeno una mezza dozzina, intorno alla macchina: quasi tutti guardavano dentro incuriositi e inebetiti, dondolando da un piede all’altro e gesticolando come a dire Â?mi sto muovendo, mi sto dando da fare anche ioÂ?. Si ricordò che nel portabagagli aveva gli attrezzi: crick, cacciavite, croce per i bulloni. Ecco, la croce forse poteva andare, forzando prima con un cacciavite. Sua sorella lo diceva sempre: Â?Anto’, menomale che ci sei tu, a restare lucido, altrimentiÂ?Â?. Non sapeva da chi avesse preso quella razionalità che gli permetteva di affrontare le situazioni d’emergenza senza perdere la lucidità. A volte aveva pensato che fosse un modo per sfuggire il dolore, o l’angoscia. Come quando sua sorella lo chiamò piangendo in piena notte, Â?ché papà aveva avuto un ictusÂ?. Era lui che aveva chiamato l’ambulanza, parlato con i dottori, e si era ricordato anche di avvisarli che il padre era allergico all’acetilsalicilico, non si sa mai. Tornò, si fece largo tra gli altri e, infilando prima il cacciavite, poi la croce, cercò di forzare lo sportello. L’omone dagli occhi fermi fu pronto ad aiutarlo: aveva capito al volo.

Finalmente lo fermò. Quell’enorme bestione che aveva sotto il culo gli era sfuggito di mano, e aveva combinato un casino. Quindici secondi di panico totale. Non ci aveva capito niente, lui; tutto era accaduto troppo in fretta, e senza il suo controllo. Ora sembrava finita. Era fermo. Tornò a respirare, con ritmo lento e cadenzato Abbracciò il volante, e vi si accasciò esausto. Si sentiva svuotato, ora. Intorno, un silenzio assordante, in cui si cullò per alcuni istanti, senza pensieri, senza emozioni. Fu come si fosse risvegliato, quando alzò la testa dal volante, e guardò fuori: un bel botto, era incappato in un incidente. Cazzo. Qualcuno si dirigeva verso di lui, correndo, agitando le braccia, chiamando. Sto bene, credo, non mi sono fatto niente. Il bestione qui è potente e protegge chi lo guida. Aprì lo sportello e scese, saltando sull’asfalto senza passare dal gradino. Sto bene, non mi sono fatto niente. Poi guardò la strada: una macchina ferma dall’altro lato, distrutta davanti e dietro, c’era forse qualcuno dentro, immobile, ne distinse a stento le forme tra la gente che si agitava davanti allo sportello; altre macchine ferme, più indietro, ma queste non ammaccate, e senza nessuno dentro. Dovevano essere scesi tutti, a giudicare dalla gente che c’era in giro. Poi vide il camion, il suo bestione. Il muso rivolto dove tutte le altre macchine avevano il culo. Totalmente contromano. Fu come uno schiaffo. Uno schiaffo potente tirato con forza, a schioccare sulla guancia. Fu come se si fosse svegliato di nuovo, ora, e stavolta del tutto. Allora capì. E scoppiò a piangere.

Si sentiva distrutta. Ed erano solo le nove e mezzo di una lunga giornata. Come cazzo guidava Danilo, ogni volta la stessa storia, ci aveva litigato l’altro ieri! Non capiva come avessero fatto ad affidargli un’ambulanza. Vabbe’ che bisognava andare di corsa, maÂ?Tutta la sua giornata era già un correre continuamente, specie quando aveva il turno la mattina presto, come oggi. Ieri sera ci si era messo pure lui: non bastava aver lavorato tutto il giorno, e lui sa quanto è faticosa l’assistenza in ambulanza; è pesante anche emotivamente, e lui lo sa, si deve pur ricordare quante volte ha dovuto tirarla su, consolarla, specie i primi tempi, che ancora non aveva imparato a mantenere un certo distacco. Aveva voluto portarla per forza a vedere quel concerto al Saint Louis, che poi quel gruppo chissà quando risuona a Roma, e sono da paura, sai, davvero eccezionali. Si lo so, lo so, però sono stanca, oggi. Aveva voglia solo di fare un bagno caldo e vedersi un film a letto, uno di quei film tipo commedia a lieto fine. E invece era andata. Non riusciva a imporsi, non riusciva con lui, ma in realtà quasi con nessuno, tranne con sua madre, che era più remissiva di lei. Anzi, sua madre era remissiva, lei era accomodante. Forse troppo. Sicuramente, troppo. Carlo stava guidando peggio di altre volte stamattina, forse si era alzato con la luna storta anche lui. Era la terza chiamata quella, da quando avevano attaccato alle otto: incidente in via di San Gregorio, tra il Colosseo e il parco del Celio, una macchina e un camion, un ferito grave. Andiamo, cominciamo oggi la nostra routine di ossa rotte, attacchi allergici, infarti improvvisi e svenimenti inspiegabili. Oddio, non ne posso già più.

C’è gente, fuori. Mi parlano, ma non sento niente di quello che dicono. Ho avuto un incidente, credo. Aiuto, tiratemi fuori, voglio scendere. Tiratemi fuori, vi prego, tiratemi fuori di qui, è bloccato, non si apre, e io sono piena di vetri, sanguino, e non ricordo. Non ricordo niente. Ecco, si sta aprendo. Qualcuno ha afferrato lo sportello e lo tiraÂ? lo ha tirato via. Fai piano, mi dicono, lentamente; ma io mi sento già tutta rallentata, non capisco cosa fare. Devo uscire, per ora, devo uscire di qui. Cosa è successo, chiedo, a quello che mi sorregge mentre cammino. Forse sono in due, o di più. E ognuno dice qualcosa. Mi accascio su un gradino: è il marciapiede, e intorno mi dicono, mi domandano; io non so rispondere. Il numero di telefono, vogliono un numero di telefono, ma io non trovo numeri dentro di me. Aspettate, per favore, non ce la faccio così. Hai avuto un incidente, dice uno. Meccanicamente tiro fuori dalla memoria un solo numero, è il numero di casa mia. Ora ricordo, vivo con quattro persone, quattro amici. Carla non la conoscevo prima della casa insieme, ma è simpatica. Abbiamo trovato un appartamento con cinque stanze, anche se cercavamo casa in due, io e Vanessa, ma poi è andata bene, si sono uniti Paolo e Felicia, e loro hanno portato Carla. Casa da studenti, col frigo sempre vuoto e i conti da dividere scientificamente. Non chiamate casa mia, vi prego, chiamate i miei genitori: mia madre è a scuola; com’è il numero della scuola, non lo ricordo, ma perché non lo ricordo, non ricordo neanche il numero di casa dei miei, c’è mio padre lì, forse, o la segreteria. Il computer, per favore c’è un computer in macchina, non è mio, lo devo restituire, è di una mia amica, per favore il computer, prendetelo, per favore. No, non ho una rubrica, o forse sì, ma non so dove. L’agenda, sta in macchina, nella borsa. Non vedo i volti, non vedo gli sguardi, ma li sento: rassicuranti, agitati, premurosi, quasi dolci. C’è un uomo, è calmo, mi siede accanto e mi parla: ha la voce calda, prova a scherzare, mi chiede se possiamo rivederci, dopo, Â?ché non ha mai conosciuto una ragazza così, bella come un fioreÂ?. Sorriderei, ma la bocca mi tira, mi tira dappertutto, ed è piena, tanto che mi fa fatica anche parlare. Lo so che ho avuto un incidente, l’ho capito. Ma giuro non sento dolore, solo una gran confusione e mi sento tanto stanca. Uno per strada davanti a me piange e urla, e si agita, e cammina avanti, indietro, tirandosi appresso della gente, chi cerca di fermarlo, chi gli va dietro a vedere, e lui piange, e piange ancora. Io non piango. Non so perché dovrei piangere, non sto soffrendo, solo non capisco.

Non so com’è successo, oddio mioÂ?, c’era una macchia d’olio. GuardaÂ? VieniÂ? Vieni a vedere anche tu. Una macchia d’olio in mezzo alla strada. La pioggia. Non ho mai avuto un incidente, ioÂ? devi credermiÂ? oddio. Capiva cosa era successo, cosa aveva combinato, eppure era sicuro, c’era una macchia d’olio, aveva perso il controllo, quel cazzo di camion aveva sbarellato e lui aveva fatto il possibile per tenerlo. Oddio guarda la macchina, o madonna, è distrutta. Non ho mai avuto incidenti io, mai, è la prima volta… oddio… vi prego, credetemi, l’olio. Cosa devo fare? Cosa poteva fare? Era scivolato, quel cazzo di camion non aveva retto, e aveva dovuto sterzare a sinistra per non prendere le macchine davanti. Porcatroia, quella sul marciapiede era la ragazza che stava in macchina. Era piena di sangue. Tutta la bocca. Pensò a un’emorragia dentro, o che le cadesse dalla testa. Si sentiva male anche lui, aveva i brividi, e piangeva, piangeva, e aveva tanta paura, moriva di paura. Oddio che ho fatto.

Cercava di scherzare con lei, era così intontita, aveva paura che svenisse di nuovo, e allora erano guai. La teneva sveglia con le battute, anche se non erano proprio il suo forte, le battute. Sapeva che non avrebbe dovuto muoverla dalla macchina, lo aveva anche detto agli altri. Ma lei era voluta uscire a tutti i costi, e poi comunque camminava, sembrava non avere danni alle gambe o alla spina dorsale. Però quanto sangue dalla bocca. Parlare con lei le serviva anche a placare il timore che le morisse fra le braccia, magari per qualcosa alla testa o qualche emorragia grave interna. Suo padre era morto accanto a lui, ma nel proprio letto, guardandolo. Non avrebbe mai scordato quello sguardo, e quel suo modo di parlare con l’unica mano che poteva muovere: uno, il pollice; due, anche l’indice; tre, e ora pure il medio. Poi di nuovo pollice e indice, a ondeggiare da una parte all’altra. Dopo un po’ con la sorella erano riusciti a decifrare cosa voleva dire: non posso parlare, non posso muovermi, soffro io e anche voi. Non c’è niente da fare, è meglio che me ne vada. Sua sorella non voleva accettarla, quest’ultima interpretazione, ma era la più logica, per quel gesto ondeggiante a due dita, e forse la più sensata. Capiva suo padre, lui, gli doveva la razionalità e la lucidità che lo avevano sempre contraddistinto nei momenti difficili. La ragazza ora sembrava volesse sorridergli, ma proprio non riusciva, con il sangue rappreso sulla bocca, e le venivano fuori solo delle smorfie. Doveva avere circa ventiquattro, venticinque anni, non di più. Se almeno quel cretino la smettesse di piangere e gridare! Voleva vedere che cosa aveva da indicare, dall’altra parte della strada, e capire forse come si era generato questo maledetto incidente. Scorse l’omone di prima che parlava con un gruppetto di persone proprio lì vicino, lo chiamò e si fece spiegare cosa gridava quello: dice che c’era una macchia d’olio, ed è scivolato. Ma non c’è un cazzo lì, quello stronzo andava solo troppo veloce, coglione! La ragazza sta bene? La ragazza? Non lo sapeva mica, lui, se la ragazza stava bene. Per ora non sembrava soffrire, era sotto shock, l’adrenalina, forse, ma chissà che aveva, magari qualcosa di gravissimo dentro, con tutto quel sangue. Bisognava che l’ambulanza si sbrigasse. Lui intanto continuava a tenerla sveglia con le sue battute cretine.

Stavano per arrivare, doveva prepararsi: sistemò la barella in posizione, controllò ancora una volta le bombole d’ossigeno, e si infilò i guanti. Dal finestrino intravide per prima cosa una macchina ferma: aveva il cofano completamente schiacciato e rientrato, il vetro davanti distrutto, lo sportello del guidatore divelto. Mi sa che si è fatto male parecchio, chi guidava. Non riusciva a capacitarsi della stupidità della gente, aveva visto degli incidenti d’auto causati da atti talmente stupidi da rasentare la follia. Erano arrivati. Ora doveva mostrarsi tranquilla, serena ed essere molto accorta e rapida. Concentrata. Chiuse gli occhi per un istante e fece un bel respiro col diaframma.
Â? Ci siamo! Apri!
Â? Vai!
La ragazza seduta sul marciapiede, era lei che dovevano caricare. Colpo alla testa, sangue dalla bocca: possibile rottura della mandibola, possibili ematomi celebrali, possibili emorragie interne. Lucida, risponde. Movimenti rallentati. Sotto shock. Perdita di coscienza per almeno dieci-dodici minuti. Dicono i primi soccorritori che l’hanno aiutata a uscire dall’auto. E’ sempre così. Non capiscono che potrebbero causarle altri danni, muovendola. Per fortuna non sembrava avere problemi agli arti o alla colonna vertebrale.
Inserita la barella nell’ambulanza, chiuso il portellone, si parte.
– Come ti senti? Puoi parlare?
Il battito era accelerato e debole, ma le funzioni vitali non sembravano allarmanti. Si era abituata ormai a quell’espressione che tante volte aveva visto nei pazienti di incidenti stradali: alcuni si agitavano molto e mostravano rabbia e aggressività, altri invece piangevano e si lamentavano; la maggior parte, tuttavia, si guardava intorno tra lo sbigottito e l’incredulo, a dire cosa, cosa mi è successo. Immaginava che il tragitto in ambulanza fosse per molti di loro il primo momento di riflessione su ciò che era accaduto. Questa ragazza aveva tuttavia uno sguardo diverso, profondo ma senza pensieri, sembrava osservare le cose come da fuori uno schermo, come se non fosse lei sdraiata su quella barella con la bocca sanguinante, ma qualcuno in un film. Al fondo degli occhi, però, c’era ancora il sapore della paura. Doveva averne avuta molta, a trovarsi davanti quel camion enorme, anche solo per pochi secondi. Le teneva il polso, per controllare di continuo il ritmo del cuore, come le avevano insegnato al corso di soccorso e prima assistenza.
– Non riesco a respirare. Aveva un tono di voce caldo, intimo, di chi si affida completamente.
– Aspetta, ti metto la maschera d’ossigeno, ti aiuterà. Stai tranquilla, ci siamo noi ora. Tra poco siamo arrivati.
Come sempre, una volta lasciata la ragazza in ospedale, non avrebbe più saputo niente di lei.

Sulla porta della presidenza si dettero il cambio: i genitori di Noveni uscirono, Sergio entrò. Era già la terza volta, stamattina, che si rivolgeva alla preside, e cominciava a temere una sua reazione irritata. Sapeva che la preside non amava essere disturbata per le piccole incombenze quotidiane. Ma sapeva anche che se avesse utilizzato il modulo sbagliato, quello per la malattia invece di quello per le ferie o viceversa, per la bidella e i suoi cinque giorni di cure termali alla schiena, la preside se la sarebbe presa con lui. Decise quindi che era meglio andare da lei ancora una volta, a domandarle quale modulo dovesse usare. In fondo, lui era solo il segretario economo, non doveva mica sapere tutto, altrimenti la preside che ci stava a fare? Sergio aveva dovuto aspettare che la preside si occupasse del preside Zecchino, al telefono, per aggiornamenti sull’ultima riunione del gruppo di studio sulla cooperazione didattica, di seguito della professoressa Natale con la sua richiesta di partecipazione al corso di aggiornamento, poi ancora dei genitori di Luca Noveni, della quarta B, che aveva rubato il cellulare al compagno di classe durante la ricreazione. Finalmente ora toccava di nuovo a lui, e doveva chiederle quale modulo, doveva andare avanti con il lavoro lui, non poteva aspettare e poi essere redarguito per un ritardo di cui non era causa. Entrò deciso in presidenza, dando veloce un colpo di nocche alla porta, per avvisare la preside del suo arrivo. Le pile di documenti sulla scrivania non gli permisero quasi di vederla, china sui fogli Â? come non le venisse il torcicollo Sergio proprio non lo sapeva, a stare ore in quella posizione ricurva Â?, finché la preside non tirò su la testa di scatto e puntò lo sguardo dritto su di lui:
Â? Cosa c’è stavolta, Vitangeli? Â? La preside era già irritata, Sergio lo aveva capito da quel sopracciglio alzato con cui lo aveva accolto. Si avvicinò allora alla scrivania, ma non si sedette su nessuna delle due comode poltrone accanto a lui, sapeva che avrebbe dato lÂ?impressione di doverle portar via troppo tempo, a sedersi. Si passò la mano tra i capelli e si decise a parlare:
Â? Preside, il modulo per le cure termali della RizzoÂ?
Squillò il telefono e interruppe la sua domanda sul più bello. Sergio alzò gli occhi al cielo, poi, colto in flagrante dalla preside, abbassò immediatamente lo sguardo. Si riavviò i capelli, e si mise a leggere i due moduli che teneva in mano, per passare il tempo e non dare troppo l�impressione di ascoltare la telefonata.
Â? Sono io la signora Canali. Chi parla? Â? Sergio si chiese chi poteva telefonare a scuola e chiamare la preside Â?signoraÂ?.
– Si è mia figlia. Chi parla? Â? Ah, roba di famiglia, intuì Sergio. Ora capiva quel Â?signoraÂ?. Lo sguardo gli sfuggì dai moduli per un momento, e andò a cogliere gli occhi della preside, che erano fissi su di lui, ma, a guardar bene, sembravano attraversarlo senza vederlo. Il volto della preside era impassibile, o almeno così gli sembrava, ma era stranamente duro e tirato. Ci furono alcuni secondi di silenzio, in cui la preside non mosse un ciglio, e nemmeno lui, tanto che riuscì quasi a sentire la voce che parlava dallÂ?altra parte del telefono. Era maschile.
– E non posso parlare con mia figlia? Â? Il tono della preside era freddo, quasi asettico. Sergio, che conosceva bene i toni di voce della preside, ebbe lÂ?impressione che fosse accaduto qualcosa di grave, e badò bene di rimanere immobile, cercando di non trastullarsi le dita, come era solito fare quando cÂ?era qualcosa che non andava e non sapeva come comportarsi.
� Mi può leggere il referto medico, per cortesia? � Sergio cominciava a capire. Doveva essere accaduto qualcosa di brutto alla figlia della preside. Se la ricordava, la figlia, una ragazza alta con i capelli ricci, aveva lo stesso sguardo della madre, sicuro e deciso, ma l�espressione del viso era più dolce, più morbida. Una volta aveva sentito la preside rimproverarla per come si era vestita, con una gonna estiva e una assurda felpa logora, coi polsini smangiati, ma Sergio sapeva che quando veniva la figlia a trovarla a scuola, la preside sembrava sempre molto felice, e subito faceva entrare le professoresse amiche sue della vicepresidenza, poi mandava la bidella a chiamare Massimo, il ragazzo del bar. La prima volta l�aveva addirittura portata in segreteria per presentarla a loro, la teneva sotto braccio come fosse una damina. Del resto aveva ragione, era una bella ragazza, e inoltre gli aveva anche sorriso, quando lo aveva incontrato davanti alla presidenza.
– La Tac? … Senza Tac come fanno a escludere eventuali danni cerebrali? Â? Sergio si allontanò dalla scrivania, presumendo che la preside, che si era alzata in piedi, stesse per muoversi verso la porta.
– Va bene. Avviso io mio marito. Tra poco saremo lì. Posso portarle qualcosa? Biancheria, pigiama, lo spazzolino… Â? Silenzio, poi la preside ripiombò sulla sedia. Sergio comunque rimase dovÂ?era.
– Oddio. … Ho capito. Le può dire che stiamo arrivando? Â? La preside si rialzò di colpo. Sergio indietreggiò ancora. La telefonata era finita.
– Vitangeli, può avvisare gli altri che devo uscire immediatamente? Mia figlia ha avuto un incidente, vado in ospedale. Chiamerò appena possibile. Arrivederci Â?
– Non si preoccupi preside, penso io a tutto Â? Sergio uscì dalla presidenza, vide la preside già per le scale. Forse avrebbe dovuto chiederle dei moduli, prima che se ne andasse.

In quattro o cinque col camice mi girano intorno. Veloci, velocissimi. Vi prego, fermatevi, vi prego. Parlate con me, vi prego� ditemi, voglio sapere. Sono stanca, mi affatica vederli agitarsi su di me. So che è il loro modo di prendersi cura di me, il loro mestiere. Ma parlate con me, vi prego. Una mi sta tagliando i pantaloni lungo la gamba, la lascio fare. Non ti preoccupare, li teniamo noi. Le prime parole che mi vengono rivolte. E mi sfila gli anelli cui tengo tanto, anche se non valgono niente. Li tiene lei, ha detto. Va bene. Va tutto bene. Scusi, sono allergica ai medicinali, io. Stanno per farmi un�iniezione, vedo la siringa in mano all�infermiera vicino a me. E� antitetanica, signorina, dobbiamo fargliela. Ma sono allergica. Sono allergica ai medicinali, io. Lo devono sapere, non mi devono dare niente, non voglio niente, gliel�ho detto, tante volte, l�ho detto, lo ridico. Non mi sentono, non mi rispondono. Uno-due-tre, tutti insieme ai quattro angoli della lettiga. Mi hanno spostato su un�altra superficie, forse un letto, ma più duro. Ora mi osservano, mi girano, mi toccano. Non sento cosa dicono, non riesco, sono troppo veloci. Vorrei un po� di calma, vorrei sapere. Ho capito che sto male. Ricordo il sangue in bocca, e sul viso. Lo so, ho dato un colpo in testa così forte che mi ha rotto qualcosa alla bocca, l�ho vista, sai, sapete, l�ho vista la mia bocca, dentro. E� spaccata, la mia bocca. Il palato è spaccato, e chissà cos�altro. Cosa ho alla testa? Chiedo a uno dei camici che spinge la mia barella non so dove. Dove mi portate? Non mi risponde. Cos�ho alla testa? Dico più forte. Non può non sentirmi. Riprovo. Cos�ho alla testa? Vi prego, fermatevi. Rapida, quasi meccanica, la risposta: ora controlliamo, stiamo andando a fare le radiografie. Va bene. Fate voi. Cos�ho alla testa? Ho paura. Parlate con me.

Camminava da una parte all�altra del marciapiede, lo sguardo rivolto nel vuoto, una frenesia indomabile e priva di vie di sfogo. Ma quanto ci mette? Un pensiero dopo l�altro, inseguiva l�attesa cercando di non perdersi. Proprio non riusciva a capire come facesse sua moglie a rimanere calma in situazioni simili, lui si sentiva esplodere, e l�unica cosa che lo placava era fare, fare, fare. E finché aveva dovuto prendere le cose da portare a sua figlia, organizzare una borsa, prendere l�autobus e raggiungere piazza esedra dove sua moglie lo avrebbe raggiunto per andare in ospedale, si era sentito tranquillo. Ora quell�attesa lo stava snervando. Cominciava a pensare a come avrebbe trovato sua figlia. Viva. Sicuramente viva. Senza denti, avevano detto dall�ospedale. E con un trauma cranico, da tenere d�occhio. Sono pericolosi i colpi alla testa, creano problemi gravi anche dopo alcuni giorni. Se lo sentiva, quella mattina, avrebbe dovuto accompagnarla lui Ilaria all�università, con tutta quella pioggia che veniva giù, ma lei non aveva voluto, avrebbe preso la macchina di Vanessa, tanto poi sarebbe tornata subito a casa. Sempre di testa sua, Ilaria. E ora.

Guardò l�orologio. Sua moglie l�aveva chiamato quasi mezzora prima, sarebbe arrivata a momenti. Scrutò tra le macchine che si incanalavano nella piazza laddove prima o poi sarebbe comparsa anche la seicento di sua moglie. Ancora no, non la vedeva. Girò indietro sui suoi passi, ma stavolta allungò il percorso fino all�edicola poco più in là. Forse a Ilaria avrebbe fatto piacere un fumetto. Leggeva Dylan Dog. L�edicolante stava dando il resto a una signora con delle riviste in mano. No, non c�era tempo, sua moglie poteva arrivare da un momento all�altro, e lui doveva essere pronto. Non riusciva a crederci. Davvero sua figlia aveva avuto un incidente? Davvero un camion le era andato addosso? Forse lui stava aspettando sua moglie per andare insieme a fare la spesa. Per un attimo gli parve realmente così. Una seicento azzurra, stava svoltando verso la piazza. Ilaria, stiamo arrivando. No, non era quella di sua moglie, c�erano due persone, dentro, e sua moglie invece sarebbe stata sola. Ma quando arrivava? Possibile ci mettesse tanto?

Il poliziotto disse loro che l�avevano portata nella camera lì a fianco, dove venivano appoggiati i malati temporaneamente, prima di assegnarle una sistemazione definitiva. Ma non c�era posto, lì, avrebbero dovuto portarla in un altro ospedale, il prima possibile, l�ambulanza era già pronta. Sta bene, comunque, vostra figlia, ci ho parlato personalmente, è sotto shock, ma è lucida. Non vi spaventate, però, ha la bocca piena di sangue raggrumato, e lividi sulle gambe e sulle braccia, niente di grave, sembra. Erano troppo nervosi per tenersi per mano, e poi erano anni che non lo facevano, solo si cercavano con lo sguardo a ogni pausa del poliziotto, a rinfrancarsi a vicenda. Prima di bussare alla porta della camera dove avrebbero trovato Ilaria, la loro unica figlia, si presero sotto braccio e si scambiarono un ultimo sguardo d�intesa. Nessun dramma, nessuna paura. Andava tutto bene, Ilaria era viva e loro avrebbero solo dovuto starle vicino, ancora più vicino, da adesso in poi. Entrarono. La camera in penombra, tre letti su un lato: una signora anziana in camicia da notte li guardò incuriosita dal primo; il secondo era vuoto, le lenzuola tirate su; nel terzo un vecchio sonnecchiava, il respiro pesante. Ilaria? Videro un quarto letto, una barella in realtà, di sbieco dietro la porta, nella zona più buia della camera. Ilaria era lì, sembrava dormisse. Si avvicinarono piano, un insieme di paura e di attenzione a non svegliarla. Le presero la mano, entrambi, uno sopra l�altra. Videro prima le lacrime, poi gli occhi aperti, e infine la bocca, nera di sangue raggrumato, con su una smorfia:
– Mi dispiace.

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