Ciao, nonna

Venivo a trovarti, mi sedevo accanto a te, e mi dicevi: ieri sera sono andata all’opera. E io fingevo con te: certo nonna, era bella? E ti chiedevo se volevi bere un po’ di aranciata con la cannuccia. Ma non volevi mai bere…
E invece aggiungevi: c’è questo servizio straordinario, appena l’opera finisce, quelli mi fanno addormentare e mi riportano a casa mia nel mio letto, e senza neanche rendermi conto mi sveglio la mattina dopo e sono già qui. Non trovi sia un servizio straordinario? Certo nonna, davvero straordinario.

Venivo a trovarti, la sedia accanto al letto era la stessa di sempre, e ancora tu mi dicevi: tuo nonno, buonanima, mi ha fatto un regalo eccezionale. Vedi questa camera da letto, lo vedi che è uguale alla mia a Roma? Be’, tuo nonno ne ha fatta costruire una in ogni albergo di ogni città dove sa che io voglio andare. Parigi, Londra, New York, Stoccolma.
Sto girando il mondo, ma la sera, quando rientro in albergo, è come fossi a casa mia. Non vedi? C’è anche una copia dello stesso quadro.
Certo nonna, davvero eccezionale. Come fossi a casa tua.

Venivo a trovarti, nonna, e dal tuo letto, che non lasciavi ormai da tre anni, mi guardavi con quei tuoi occhi chiari chiari, raddolciti dalla vecchiaia, e mi sorridevi. Mi guardavi, mi sorridevi e mi tiravi i baci con le dita.
Vedevo gli ematomi sui polsi per le flebo, ma vedevo anche il tuo sguardo sereno, che viaggiava per il mondo e la sera si addormentava davanti allo stesso quadro.

Mi dicevi, voglio arrivare a cento anni. L’anno scorso ti abbiamo detto che c’eri arrivata, nonna, ma tu sei furba, e non ci hai creduto, e hai aspettato quest’anno, dopo due mesi dai tuoi veri cento anni, per salutarci, dalla tua camera con il letto davanti al tuo quadro.

Nella camera d’albergo di quale città sei, ora, nonna?

Ode ai post incompiuti

Nel mio computer c’è una cartella che si chiama ‘racconti’, dentro la quale ci sono varie altre cartelle. Tra queste ce n’è una che si chiama ‘da finire’. Questa cartella contiene idee per racconti, o racconti iniziati e non finiti.
Nel mio computer c’è poi una cartella che si chiama ‘sceneggiature’, dentro la quale ci sono varie cartelle, e tra queste ce n’è una che si chiama ‘da finire’. Questa cartella contiene sceneggiature iniziate e non finite.

Nel mio computer c’è anche un file txt che si chiama ‘post’. Mi serve per appuntarmi le idee o per iniziare a scrivere i post che poi voglio pubblicare su questo blog.
Quando decido di pubblicare uno di quei post appuntati, lo copio e lo incollo dentro wordpress, e da lì continuo a scriverlo. Una volta che il post è pubblicato, cancello gli appunti dal file txt.

Quel file txt, ora, è lunghissimo. Ci saranno almeno una ventina di appunti, molti post iniziati, molti quasi finiti. Nessuno pubblicato.
E’ un file di post incompiuti. Ciascuno ha qualcosa che non mi convince, o mi ha annoiato, o forse non è più il suo tempo.

Spesso apro quel file, do’ una scorsa ai vari post incompiuti, provo a riprenderne uno, scrivo magari qualche parola.
Poi mi ritrovo con le mani sulla tastiera e lo sguardo altrove. Allora chiudo il file.
E intanto questo blog langue, e il file txt si allunga.

Non so come mai in questo periodo non riesco a scrivere qualcosa che sia per me comunicabile. O forse lo so, ma non lo scriverò 😉

Quei post incompiuti, però, mi fanno tenerezza. Hanno un loro senso, sono un bacino di idee, pensieri, storie che stanno là in attesa. Un’attesa forse inutile, o forse no.

Mi sembrava giusto, nell’attesa che condivido con i miei post incompiuti, dare loro almeno la dignità della menzione su questo blog, per cui sono nati, e per cui, forse un giorno, saranno pronti.

Anna al bar della notte

Un tempo, in quel bar della notte, Anna è stata una di quelle donne dal viso pallido e dal trucco sfregiato.
Una spossatezza più profonda di quella del corpo consumato in balli e risate, un’assenza di pensieri, un cappuccino a riprendere contatto con il giorno, e con se stessa. Il cucchiaino che girava lento nella schiuma per non disturbare.
Intorno, non vedeva l’uomo che la guardava.
Non c’era felicità sottile, non c??era malinconia: c’era silenzio, silenzio sordo, per salutare il giorno.

Per molti anni, poi, quel bar della notte per Anna non è stato altro che un luogo cui scivolare davanti, guardando dal finestrino consumato della sua automobile le anime tormentate e gaie che vi brulicavano attorno.

Ora, in quello stesso bar della notte, Anna è una di quelle donne con qualche linea di trucco e gli occhi vivi.
Una stanchezza priva di sonno, un Porto condiviso a tirare tardi, pensieri e parole che si intrecciano senza uscire mai dalla pelle, ché ci si tiene caldi dentro, e fuori si osserva senza sciogliersi.
Ascolta gli occhi dell??uomo su di sé, senza voltarsi a celebrare curiosità di attimi.
La felicità è nelle voci intorno, antiche e nuove, la malinconia si accuccia tra le dita delle mani.
Il silenzio non è a suo agio, ma insieme, il silenzio, le voci, Anna e le sue dita, salutano il giorno.

Imparando il tango

Il tango, si sa, è un ballo passionale che prevede una certa intimità tra i corpi, ma soprattutto prevede che la donna si faccia condurre dall’uomo in tutto e per (quasi) tutto, e dunque che l’uomo si assuma la responsabilità di ogni passo.

Da questo punto di vista il tango diventa, per me e per molte persone di mia conoscenza, una vera e propria scuola di vita: se sei donna, devi imparare a fidarti dell’uomo (ahi ahi, e ce ne vuole!!!); se sei uomo, devi imparare ad assumerti tante responsabilità, ma tante davvero (e non vi viene facile, o uomini, non negatelo…).

Io ho cominciato qualche giorno fa, su una strada poco trafficata di Garbatella, quando, nell’indecisione se girare a destra o a sinistra, il mio amico, abile tanguero, mi ha detto: vieni, ti insegno il passo base del tango.
Ed è così che, tra una pausa e l’altra dovuta al passaggio di qualche incurante automobile, ho ballato (uhm, non sono sicura si possa davvero dire così!) il mio primo tango.

Un po’ irrigidita, leggermente confusa e visibilimente affaticata, è stato subito evidente che la mia difficoltà era affidarmi e lasciarmi guidare da lui. Con assoluta pazienza e non poco ingegno, qualità degne solo di un buon maestro, il mio amico ha tirato fuori dal cilindro un esercizio che sembrava fatto su misura per il mio tipo di problema:

mi ha bendato gli occhi, mi ha preso per mano e ha cominciato a camminare. In questo modo mi ha guidato tra marciapiedi affollati, schivando avventori nervosi per l’ultima corsa agli acquisti natalizi; mi ha guidato su impervie strisce pedonali, sfidando il passaggio di automobili stremate da ore di traffico cittadino; mi ha guidato tra gradini, buche di varie entità e cacche di cani dai padroni incivili.
Se Roma sotto Natale si trasforma in una vera e propria città infernale, allora il mio amico si è trasformato in un vero e proprio Virgilio (con ciò non voglio assolutamente sottointendere che io sia Dante, eh!)

Da piccola, con la curiosità che spinge i bambini a conoscere per capire, avevo provato a bendarmi, per scoprire come funzionava quella cosa lì di non vedere e degli altri sensi cui si fa più attenzione. Stavolta però l’obiettivo era diverso: l’esercizio voleva che io mi affidassi completamente e mi deresponsabilizzassi, due cose che per carattere non mi riescono troppo bene…

Eppure ci sono riuscita. E una volta raggiunto l’obiettivo, in meno tempo di quel che avrei immaginato, ho potuto giocare a sintonizzarmi sugli altri sensi, scoprendo che il freddo e l’umido sulla pelle, (qualcosa che coinvolge il tatto, direi), sono ottimi fattori per capire dove ci si trova, e che ci sono infiniti rumori, oltre le voci e i clacson che comunemente si sentono quando si cammina per strada. Gli odori purtroppo si sentono meno, ché Roma ha una fitta coltre di puzza omogenea…

Alla fine abbiamo giocato un po’, a toccare ogni cosa per carpirne il segreto (frutta e verdura su una bancarella, e uno strano pallone alto quanto me, ché ancora non ho capito cosa fosse, ma forse è meglio non saperlo…), a odorare dentro un ristorante, ad ascoltare gruppi di persone che ciarlavano e spostavano oggetti pesanti… Abbiamo anche fatto una corsa contro il vento (lungo una strada vuota, eh!). Inutile dire che io, ovviamente, ero sempre abbarbicata alla mano del mio amico, che ne ha riportato i segni fino al rientro nella sua città di origine …

Da tutto ciò ne ho dedotto che sono capace di affidarmi e sollevarmi dalla responsabilità per almeno mezzora, cosa che mi dà speranza per un futuro più riposante. Il tango, invece, devo ancora imparare a ballarlo 😉

Il paese nascosto

Se un giorno non hai niente da fare, o se decidi di staccare dalla solita routine, dal lavoro, dagli impegni, dal computer… allora vai a Garbatella vecchia, la Garbatella dei Lotti stile città giardino (eh, se non sei di Roma, devi prima prendere un treno o un aereo, l’auto o la moto. O partecipare a una tua personale Critical Mass in bici o a una marcia della pace kilometrica).

La Garbatella dei Lotti stile città giardino ti si apre davanti all’improvviso (per esempio passando sotto l’arco di Piazza Brin, o sotto l’arco di Via Passino) come un piccolo paese incastonato in mezzo alla città. Quello che troverai sono tanti minuscoli villini a uno, due o tre piani (ogni piano un piccolo appartamento, eh, ché sempre case popolari sono, con tutta la faticosa storia dei loro abitanti), con una striscia di giardino intorno e delle porte che sembrano fatte su misura per gli Hobbit.

Il modo migliore per godersi questa parte di Garbatella vecchia è passeggiare senza meta, decidendo quale strada imboccare di volta in volta, in totale serendipity, fino al punto da perderti e perdere il senso dell’orientamento.

Non ti preoccupare, prima o poi ritornerai su una strada principale, e ti sembrerà di aver fatto un viaggio in un altro mondo, ammesso che tu non abbia gli occhi bendati… ma questa, è un’altra storia 🙂

Passi da giocare

V
(adagio)
Regina, reginella, quanti passi devo
fare per arrivare al tuo castello
con la fede e con l’anello
con la punta del coltello?

Regina
tre passi da formica

E V fa tre passi da formica. Noioso, ma tant’è, almeno si va avanti e non c’è rischio di cadere.

V
(andantino)
Regina, reginella, quanti passi devo
fare per arrivare al tuo castello
con la fede e con l’anello
con la punta del coltello?

Regina
Un passo da leone

E V fa un balzo a piedi uniti. Rischioso, ma ce la fa e si sente molto meglio.

V
(allegretto con moto)
Regina, reginella, quanti passi devo
fare per arrivare al tuo castello
con la fede e con l’anello
con la punta del coltello?

Regina
Un passo da gambero

Regina incrocia le braccia e lancia il suo sguardo sadico.

Regina
(a se stessa)
Tie’, béccate questo!

V rimane di sasso. Ma il gioco è gioco, e tocca giocare. Fa un passo indietro, e visto che non se lo aspettava, rischia anche di inciampare.

V
(grave ma non troppo)
Regina, reginella, quanti passi devo
fare per arrivare al tuo castello
con la fede e con l’anello
con la punta del coltello?

La fotografia la ritrae in bilico, ma è solo l’istante di uno scatto. E il gioco va avanti.

Ciao, Lara e Corto. Web 7.0

Ieri sera ero a casa, c’era il mio amico Domenico di là che lavorava, si era offerto di prepararmi la cena (ottima frittata di patate, con contorno di lenticchie e radicchio primitivo scottato in padella al vino rosso, grazie, teso’) in cambio dell’uso della connessione in rete, perchè a casa sua aveva avuto dei problemi e doveva controllare dei documenti per il suo progetto di ricerca.

Ero a casa e gli dicevo che nel pomeriggio sarei voluta andare al Festival, ma altri impegni me l’avevano impedito.
Sarei voluta andare perché venivano riproposti in videoproiezione digitale ad Alta Definizione, sul grande schermo di Digital Party/Ufo 2007, il padiglione dedicato alle nuove tecnologie della Festa Internazionale di Roma, i corti di Corto. Web 7.0, concorso online di Arcipelago – 15.mo Festival Internazionale di Cortometraggi e Nuove Immagini.

Sarei voluta andare perchè tra i 29 corti internazionali in concorso c’era anche il cortometraggio “Ciao, Lara”, di cui ho scritto soggetto e sceneggiatura durante il laboratorio di cinema presso la scuola Omero [che ha prodotto altri 2 corti] con i mitici Paolo Restuccia ed Enrico Valenzi, e che ha la regia di Ernesto Spinelli e la supervisione alla sceneggiatura di Sergio Donati, grande sceneggiatore [tra l’altro di alcuni film di Sergio Leone] e gran persona, disponibile e generosa.

La sera, dunque, ero a casa con Domenico di là che lavorava, e a un certo punto, verso l’una di notte, ho detto: dai, fammi controllare come è andato il concorso. Ho lasciato Fraktalia Freenote su Second Life, al bar di Star Life (Slurl), isola del Festival del Cinema di Roma [dove c’è anche una curiosa palla blu che presto, mi dicono, regalerà soprese agli amanti del cinema], e ho fatto un giro in rete.

Be’, ho scoperto che Ciao, Lara aveva vinto! Devo ammettere che, nonostante alcune omissioni nel testo del comunicato stampa che gira sui giornali, è stata una bella soddisfazione 🙂

Quindi colgo l’occasione per ringraziare ancora una volta Paolo, Enrico, Sergio ed Ernesto, e tutte le persone che hanno contribuito alla realizzazione del corto. Poi, certo, ringrazio tutti quelli che hanno votato per far vincere Ciao, Lara.

Ciao Lara
soggetto di Veronica Giannini,
sceneggiatura di Veronica Giannini, Sergio Donati, Ernesto Spinelli,
regia di Ernesto Spinelli

Mestruazioni, non ne farei a meno

In ritardo. Come al solito in ritardo. L’idea era di ieri, e io ci scrivo un post oggi. Ma sai com’è, in questi giorni mi stanno arrivando le mestruazioni, e il mio umore è labile. Quindi ci ho messo un po’ di tempo a decidere se scrivere o non scrivere questo post 😉

Perché, pensavo, in fondo ho sempre vissuto in ambienti dove si diceva senza remore: oh, eddai, lo sai che sto così, mi stanno per arrivare le mestruazioni. Oppure: aspe’ che mi vado a cambiare l’assorbente. O ancora: devo prendere l’analgesico che c’ho il mal di pancia da mestruo, un’ora e poi passa. Insomma, mai vissute le mestruazioni come qualcosa di cui non si deve dire, come le innominabili me strua zio ni.

Eppure, ricordo una volta al liceo, due mie compagne di classe dovevano passare un fine settimana con alcuni loro amici fuori Roma, ed erano parecchio agitate, perché entrambe avevano le mestruazioni. Ricordo ancora la loro gioia al ritorno, nel dire: è andato tutto bene, non se n’è accorto nessuno.
E ricordo però anche la madre di una delle mie migliori amiche, una femminista storica parecchio convinta [la madre, non la mia amica], che quando un maschio si provava a dirle dietro per strada: ciao bella, ci vieni con me? rispondeva: eh, se te piace ar sugo!
Adesso, tra il nasconderle e il farne uno sfoggio un po’ sguaiato ce ne passa parecchio… ma quest’idea di scriverne un post è divertente, e forse può essere anche utile.

Magari potrebbe aiutare qualcuno a capire che se ogni tanto tendo al drammatico, e sembro più litigiosa del solito, e divento ipersensibile, basta dare un’occhiata al calendario, e voilà, tutto è più chiaro: mi stanno per arrivare le mestruazioni. Eh, tanto per capirci, mi sono arrivate proprio oggi 😉

Già, i giorni difficili non sono durante, ma prima. Durante per me è solo questione di analgesici e assorbenti, interni, per favore, assolutamente interni. Prima, invece, è un disastro. Seno gonfio, mal di testa, desiderio animale, fame incontenibile, malumori, crisi di senso, melodrammi in agguato, nervosismo latente.

Detto ciò, non ne farei a meno per niente al mondo. Per niente al mondo mi farei sottrarre questa marea di emotività galoppante, né gli istinti animali, né la magnifica sensazione di benessere quando il flusso si fa vivo e si ricomincia a contare [sul sito delle mie amiche di A/matrix c’è un bell’articolo, che gira anche altrove in rete, di Monica Lanfranco sulla pillola contro le mestruazioni]

Occhio, però, se quando mi vedi di umore labile, controlli il calendario e non è periodo di mestruazioni imminenti, allora vuol dire che sono incazzata davvero e di brutto 😉

Una parola da brivido

A volte, nella vita, capitano situazioni in cui si è lì che si aspetta. Le giornate passano, si lavora, si legge, si intavolano conversazioni coi vicini, si fa la spesa, si porta fuori il cane. Insomma si vive la quotidianità solita o meno solita e si prova la gamma di emozioni varie che ognuno di noi è in grado di provare. C’è tuttavia una piccola parte di noi che aspetta. E’ in attesa.
E non parlo di quell’attesa per cui si aspetta qualcosa di grande, ma di non ben definito, tipo, che so, innamorarsi, svoltare il lavoro che abbiamo sempre voluto, vincere alla lotteria un viaggio intorno al mondo. No, non parlo di quell’attesa lì, ché pure può capitare di vivere. Ma no, non quella.

Parlo dell’attesa di qualcosa di preciso, l’attesa di una risposta che deve arrivare, di un risultato, di un verdetto. Si sa quando, si sa da chi, si sa il come e il dove. Per dire, nei legal-movie americani è l’attesa di quel momento in cui il rappresentante della giuria si alza e dice: riteniamo l’imputato.
Ecco, quell’attesa. L’attesa di una parola. Colpevole o Innocente. Promosso o Bocciato. Me ne vado o Resto. Positivo o Negativo.

Quell’attesa spesso converge tutta su una parola. E quando quella parola viene letta o ascoltata, proprio in quell’attimo preciso, non prima, non dopo, ci prende un qualcosa nello stomaco. Quella parola, quel solo attimo, è una pelle d’oca dentro, è un brivido repentino nello stomaco, un terremoto interiore concentrato in una frazione di secondo. In una parola, appunto. Quella parola dice molte altre parole, senza dirle.
Poi arrivano la gioia o il dolore, nelle infinite loro sfumature, a seconda della parola, e dell’attesa, e della situazione.
Quella parola oggi a me ha portato un bel senso di leggerezza, durato per qualche ora. Non mi ha cambiato la vita, ma mi ha scasinato lo stomaco per bene.

P.S. Effe ha concluso uno splendido post con un bell’esempio di come si potrebbe conteggiare lo scorrere della vita attraverso le parole. Mi chiedo, giocando un po’ con le parole: una parola come quella mia di oggi, che da sola ‘non ne dice’ molte altre già dette altrove, come andrebbe contata?

Non tacere, o vai di conversazioni dal basso

Quasi due anni fa il mio amico Fabio mi raccontava di aver conosciuto un uomo straordinario. E dato che lui, il mio amico Fabio, proprio non riesce a trattenersi dal fare un documentario su ciò che davvero gli sta a cuore, nonostante la sua professione sia tutta un’altra, ovviamente ci ha fatto un documentario. Questo:

“Non Tacere” Don Roberto Sardelli e la scuola 725 – regia di Fabio Grimaldi, produzione Blue FIlm.

non tacereUn documentario su Don Roberto Sardelli e sulla scuola 725. Attenzione, però, non è solo un documentario storico, non racconta solo come Don Roberto creò la scuola 725 nel ’68 tra i baraccati dell’Acquedotto Felice e di come questa scuole divenne un laboratorio sperimentale di vita, di cultura e di lotta per la dignità e i diritti. Racconta anche il Don Roberto di oggi, le sue continue battaglie, l’incontro con gli ex allievi della scuola e la lettera al sindaco contro i mali di Roma e del mondo.

Se volete saperne di più, non vi resta che vedere il documentario, presentato sabato 13 ottobre alle ore 17.00/20.30 presso la casa del Cinema – L.go Mastroianni 1 (Villa Borghese).

Se invece sabato 13 e domenica 14 avete altro da fare, o andate a seguire il Festival dei Blog in quel di Urbino, partecipando al Blog Award e alla “Treasure Hunt Wireless Game“, allora date un’occhiata al sito www.nontacere.org, non è la stessa cosa che vedere il documentario, ma dice tanto ugualmente ed è ricco di documenti interessanti. Magari poi viene voglia anche a voi, di non tacere!